Intervento di sostegno ai familiari per l’identificazione delle salme del naufragio del 3 ottobre 2013 

Su richiesta del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse la nostra associazione ha effettuato un intervento per il sostegno alle presunte famiglie delle salme non ancora identificate del naufragio del 3 ottobre 2013 nel mare di Lampedusa.

L’iniziativa, promossa a cura dell’ Ufficio suddetto, è stato il primo evento ufficiale per la raccolta attraverso i familiari di dati ante mortem utili all’identificazione.

Le famiglie convenute a Roma hanno risposto ad un appello del Ministero diffuso in seno alle comunità nazionali residenti in Europa, di cui si supponeva facessero parte i 195 cadaveri rimasti senza nome, tutti catalogati in un “ book” contenente una serie di informazioni per una possibile identificazione su base documentale. Ha aderito all’invito un primo gruppo di 16 familiari appartenenti alla comunità eritrea, provenienti da diversi paesi europei (Germania, Norvegia, Svizzera, Regno Unito). Si trattava di coniugi o parenti di primo o secondo grado, alla ricerca di 19 scomparsi.

Della nostra associazione hanno partecipato il presidente Gianni, Andrea, Chiara, Gino e la scrivente, con il compito di dare sostegno ai familiari che vivevano questa drammatica circostanza.

L’evento si è svolto nei giorni 1 e 2 ottobre, presso il servizio medico della questura di Roma (commissariato Viminale). E’ iniziato con un briefing tecnico tenuto dall’anatomopatologa prof.ssa C. Cattaneo e si è articolato in una prima fase di accoglienza, seguita dal colloquio tecnico che prevedeva la visione dei reperti ed il prelievo del Dna e si è concluso con una fase di sostegno dopo il colloquio.

Nella fase di accoglienza, in collegamento con le strutture operative presenti, oltre al rilevamento dei dati personali si procedeva a preparare i familiari anche alla crudezza di ciò che avrebbero affrontato.

Iniziava quindi il colloquio tecnico, che durava mediamente più di un’ora, svolto dalla prof.ssa coadiuvata da 2 medici legali di Milano, dagli esperti della polizia scientifica, da 1 interprete e da 1 psicologo. La Cattaneo procedeva ad un’ intervista per raccogliere i dati ante mortem portati dai presunti familiari (foto, video, reperti vari) ed incrociarli poi con i dati post mortem raccolti dalla polizia scientifica nei giorni successivi al naufragio. Veniva quindi prelevato il tampone salivare per l’esame del Dna, momento vissuto da molti familiari con grande coinvolgimento emotivo. Il “matching” (incrocio dei dati) consentiva o di individuare il parente scomparso o in altri casi di scoprire “forti coincidenze” da verificare. Si procedeva Psicologi per i popoli – Lazio 2 pertanto a mostrare al familiare, dal “book” o dai computer, le foto dei resti dei cadaveri (talvolta molto “danneggiati”) utili a confermare il sospetto d’identità.

Seguiva il dopo colloquio, momento delicato di decantazione necessaria ai familiari per iniziare a metabolizzare le nuove informazioni cui erano venuti a conoscenza. In alcuni casi si sono rivelate particolarmente utili le salette riservate.

Le due giornate si sono concluse con una riunione di feedback con il Commissario straordinario, Prefetto Piscitelli, coadiuvato dal suo staff, a cui anche noi abbiamo partecipato insieme al pool degli altri esperti.

Riflessioni

In questa esperienza, in uno scenario di gruppo dove è carente uno strumento linguistico comune, fondamentale per lo psicologo resta il linguaggio del corpo. Il gruppo stesso dei familiari ha assunto in certi casi la funzione di auto mutuo aiuto, intervenendo alcuni di loro anche come intermediari linguistici.

Durante il colloquio, il momento di per sé più drammatico è stato quello del visionare le immagini per l’identificazione. In questa fase si procedeva con le dovute cautele poiché i familiari, pur vivendo una evidente difficoltà per il sovraccarico di stress, non riuscivano a rinunciare alla possibilità di avere un ultimo contatto con il loro caro. ”Sono venuto qui per questo!” dichiaravano esplicitamente alcuni. Ma di fronte alla crudezza delle immagini e alla certezza ormai definitiva che proprio del loro caro si trattava, subentrava il crollo emotivo.

L’identificazione avveniva infatti con dolore struggente, a volte con una ritrovata gestualità ancestrale, con rifiuto o rabbia, espressi, caso per caso, tra pianti o lacrime silenziose cariche di emozioni indicibili. Alcuni dicevano: “era quasi arrivato, dopo un viaggio lungo e pericoloso, alla ricerca di una vita migliore”, “l’aspettavamo vivo ed eccolo morto!” e poi “dov’è il corpo? In quale cimitero? Devo dirlo a nostra madre ” aggiungevano spesso i fratelli.

Il dopo colloquio era il momento cruciale della nostra presenza, il momento per la decantazione dopo lo shock della visione di immagini che parlano di morte certa, e per molti la fine della speranza. Poteva avviarsi il processo di elaborazione di un lutto fino a quel momento temuto, lasciato in sospeso. Ci si lasciava andare alle proprie emozioni: pianto per la perdita subita oppure ripiegamento in lunghi silenzi; chi gradiva rimanere nella sala d’attesa con gli altri oppure chi necessitava di un luogo appartato.

Emblematico è il caso di una madre con figlioletta, che già durante l’attesa aveva mostrato segni di cedimento emotivo e che, sostenuto il colloquio con autocontrollo, è poi sprofondata Psicologi per i popoli – Lazio 3 in un ininterrotto pianto sommesso alla visione delle immagini del figlio scomparso. E’ stata fatta accomodare in una stanza attigua, senza farla passare dalla sala d’attesa dove giocava la figlioletta, che di quando in quando chiedeva piangendo della mamma. Le sono rimasta vicina, in silenzio e all’ascolto di un pianto a volte più acuto e serrato, cercando di contenere questi momenti regressivi. Mancava lo strumento della lingua in quanto la signora non parlava inglese (e l’unica interprete eritrea era costantemente impegnata nei colloqui con i medici legali), ma i gesti sono parlanti. Accennando con la mano alla busta dei documenti che la signora teneva in grembo, lei ne ha estratto, porgendomela, la foto del figlio. Io, con rispetto, l’ho tenuta a lungo nelle mani finchè non si è spento il pianto, è calato il silenzio e lei, lentamente, asciugatasi gli occhi, mi ha guardata riprendendomela dalle mani. Capisco che è pronta a tornare con gli altri e a rivedere la figlioletta. In questi momenti, anche solo la presenza attenta di un altro essere umano, che tollera il nostro pianto disperato o il nostro silenzio senza cercare di riempirlo, fanno entrare in risonanza.

Roma, 7 ottobre 2013.

Giovanna Licciardello

Psicologi per i Popoli – Regione Lazio