Racconti del terremoto dell’Aquila

“IL PRIMO RACCONTO. IL DOLORE”

Sul piazzale assolato arriviamo senza sapere cosa faremo, dove andremo, cosa ci aspetta. Lo capiremo subito. Decine di persone, padri, madri, sorelle, fratelli, famiglie, amici, attendono di essere chiamati per riconoscere i corpi dei loro cari. Capiremo anche, presto, che saranno fortunati se potranno farlo con una sola agghiacciante occhiata. E’ necessario che queste persone, in balia di un destino ingiusto e disumano, soprattutto per chi dovrà seppellire i propri figli, sia aiutato, ascoltato, consolato, sostenuto.

Siamo in tanti: Gianni ed io, due colleghi di Milano della nostra associazione, volontari della Croce rossa, due bravissime ragazze scout di Roma, gli allievi della scuola sottufficiali della Finanza che dalle prime ore successive al sisma è divenuta la sala operativa della Protezione civile, accogliendo tutti, compresi quegli abitanti che per qualche notte preferiranno dormire in macchina, al sicuro, all’interno della struttura.

L’iter del riconoscimento è lungo, estenuante, in parte per reali problemi di ricomposizione delle salme,  confronto di dati, certificati di morte da compilare e così via, in parte anche per una  incapacità  organizzativa  iniziale che solo nel tardo pomeriggio riuscirà a stemperarsi.

Mi guardo intorno, sento la paura di non essere capace, di non farcela. E’ arrivato il momento della verità, dopo tanto cercare di imparare ad essere efficaci in situazioni di emergenza. L’istinto mi porterà ad avvicinarmi, a parlare, a non essere intrusiva, ma presente. Sono attratta inizialmente dalla disperazione di giovani padri o fratelli che siedono da soli, in disparte, la testa fra le mani, immobili per lungo tempo; da genitori impietriti, fermi, senza parlare, anche senza pianto; da una signora anziana di 81 anni che porta a spasso il canino della sorella morta che la figlia sta riconoscendo. Lei ha preferito non entrare, ma parla molto con me e si calma un po’.

Troppi giovani, troppi studenti del centro storico: non solo del Convitto della scuola alberghiera e della Casa dello studente, ma anche delle tante case prese in affitto dalle famiglie. Ragazzi di famiglie semplici, di Lanciano, Vasto, Termoli, Foggia, Sulmona, dei paesi del Molise, delle pianure agricole pugliesi. Con orgoglio hanno mandato i figli a studiare lontano: “faceva il terzo anno di ingegneria la mia Silvana (…)”, “voleva diventare maitre di sala il mio Luigi, di 15 anni (…)”, “studiava tanto volentieri scenografia per lavorare in teatro, Maria (…)”. “Se scuole ed università avessero chiuso dal lunedì, come in altre regioni, molti si sarebbero salvati (…)”; “Vieni a casa sabato, su, tanto ritorni la prossima settimana – No, voglio seguire l’ultima (!!)  lezione perché ho l‘esame il 20”. “La responsabilità, l’impegno di affrettarsi a finire, perché a casa mamma e papà fanno sacrifici, hanno anche gli altri fratelli a cui pensare”. “Ho sentito parlare e piangere un’altra Italia, quella sana, seria, dignitosa, laboriosa, lavoratrice, che non si lamenta, costruisce, spera,  combatte”. “Avrei capito se mi fossi comportato male, ma sto sul camion tutta la settimana, a casa non sempre, nemmeno la domenica, ho solo lavorato sodo da quando avevo 15 anni, per loro, PERCHE?”.

            Ogni tanto, uscendo dall’antro delle 50 – 100 bare, alcune anche bianche, guardo lontano: sullo sfondo le montagne innevate, maestose, l’aria tersa,  frizzante, dimenticata, mi danno forza. Durissima, disumana la ricerca di qualche elemento che nel cadavere devastato possa permettere una identificazione: un braccialetto, una fedina, un tatuaggio. Era notte fonda, tutti in pigiama, impolverati. “Rimaniamo qui ancora, non è meglio ricordarla bella e sorridente come l’ha vista andare via l’altro giorno?”. A volte tanti, troppi tentativi senza risultato e poi quasi l’urlo “è lei”, “è lui” perché il timore è anche quello che non sia stato ancora trovato, che sia ancora seppellito, ma vivo, che non si possa mai più trovarlo. Così si potrà almeno piangere una certezza.

Dalle 11 della mattina alle 7 di sera, con Gianni, abbiamo percorso quel maledetto piazzale in lungo ed in largo, ascoltando, sostenendo, parlando, portando acqua, sedie, gocce date dal medico della Croce rossa. Si infuria Gianni quando negano il permesso di vestire una bambina di tre anni, moldava. La famiglia in silenzio accetta, abbassando gli occhi. Nel pomeriggio, poi, si riuscirà ad esaudire questo umano desiderio e la bambina sarà vestita a festa come una bambola. Mi infurierò io, nel pomeriggio, quando vedrò l’assurdità del costringere persone così provate da ore di attesa, a dover conquistare un timbro del Comune in una scuola elementare, allo sprofondo, lontana, irraggiungibile.

Riesco, con l’aiuto di un ufficiale della Finanza, capace, a organizzare almeno  una navetta per piccoli gruppi, ma la situazione è indecente. La mattina successiva ci sarà un tavolino, un impiegato, un timbro ed un registro. “Era così difficile pensarlo prima?”. Mangiamo con Gianni 10 cannolicchi a testa: poi verso le 19 ci concediamo un momento di pausa e scendiamo verso il parcheggio per raggiungere la macchina. Passiamo attraverso la grande struttura, bellissima, della sala operativa, ben costruita, antisismica e prendiamo in pieno la forte scossa delle 19:47 del martedì. Si precipita fuori  un nugolo di persone che salta dalle sedie. Gianni è di fronte a me, al telefono, non si accorge della scossa che sposta le pareti della sala e dirà alla persona con cui parla “non capisco perché tutti si siano messi a correre”. Io gli urlo “Corri!”. Siamo fuori: siamo stati al coperto non più di un’ora complessivamente, in questa giornata, ma la scossa forte l’abbiamo presa in pieno.

Il giorno dopo, parte del pavimento sarà transennato perché in alcuni punti si è sovrapposto. Così, se qualche dubbio del voler dormire in auto fosse rimasto, scompare di colpo  e  ci avviamo verso la cara bella auto di Gianni nella quale decidiamo assolutamente di dormire. Non sarà neanche troppo difficile, per i sedili del tutto reclinabili, le coperte, i sacchi a pelo che abbiamo portato, calzerotti, cappucci. ed una stanchezza immane. I panini portati da Roma sembrano buonissimi: seduti finalmente, parliamo tra noi. Molte le auto parcheggiate di chi passerà lì la notte. “Gentili…volete un po’ di frutta?”, e ci riempiono di fave, mandarini, kiwi, perfino pomodori. Torneremo su dopo la riunione con i colleghi e quando, dopo le due, riguadagneremo la macchina, mi addormento subito perché sono sfinita. Dopo forse due ore però mi sveglio perché mi manca l’aria: sollevo il sedile. Sento arrivare un certo malessere che forse deriva non solo dall’aria un po’ viziata e dal freddo. Mi impongo di stare calma, respiro, mi volto: Gianni si informa, lo rassicuro. Sonnecchio e quando vedo albeggiare, mi rassereno. Verso le 7 iniziano ad arrivare le ruspe dei Vigili del fuoco: per ora si scava anche e soprattutto a mano, ma da domenica, purtroppo saranno necessarie.

Oggi, durante i funerali trasmessi per televisione, ho guardato e non guardato, anche perché riconoscevo  la struttura che ci aveva accolto e quel NEC RECISA RECEDIT. Penso che il motto della Guardia di Finanza non poteva essere più adatto alla circostanza. Ho riconosciuto una collega che sosteneva una madre, alcune persone che avevo aiutato, atre che  avevano trascorso con noi le due giornate sul piazzale infernale. Mi è tanto dispiaciuto non aver portato via con me i loro telefoni. In quelle poche ore si è creata con loro una solidarietà che avrei tanto voluto potesse continuare. Purtroppo, al momento, non vi ho pensato: sentivo il bisogno di aiutarli a fare presto,  per  andare via, tornare a casa, lontani da quel girone infernale di dolore.

Nella notte soprattutto, ma anche di giorno, ho parlato molto anche con i ragazzi della scuola della Finanza, uomini e donne, gentili, operosi, delicati nei gesti  e nei sentimenti: attenti, ma anche devastati da una esperienza che a 20 anni  no si può pensare sia facile da affrontare. Così, una parola, un sorriso, un “bravi, andiamo” mi ha fatto in fondo tornare al bellissimo rapporto che ho sempre avuto con i giovani, i miei studenti, più o meno di quell’età.

Nella notte seguente siamo tornati a casa. Non sarei riuscita a rimanere un momento di più: già nel pomeriggio avevo iniziato a prendere un po’ le distanze dalle tante ore di morte che avevo  vissuto. L’autostrada deserta, la luna, il timore mai provato prima di percorrere la galleria che passa sotto il Gran Sasso, il pensiero a quelle famiglie, quelle persone che sapevo disperate nelle loro case, così come le altre migliaia di senza tetto. I tanti, tantissimi volontari che non conoscevano sosta, pur di  dare una mano. Sapevo anche che a casa, questa volta, non c’era più Luna ad aspettarmi, con quello sguardo penetrante che all’entrata mi avrebbe detto “ce l’hai fatta a tornare” mentre, con la coda festante avrebbe aggiunto anche “ti stavo aspettando“. Domenica, forse, andrò a prendere la canetta abbandonata, salvata e raccolta da amici: unica possibilità per me, con il canile, di ritrovare un compagno di strada. La chiamerò Bella, proprio perché bella non è, ma dei belli non abbiamo bisogno: c’è stata Luna ad essere bella e basterà. Lei sarà la risposta che ormai da 35 anni cerco negli esseri a quattro zampe che, nulla togliendo agli umani, tanto mi hanno dato in affetto, presenza, calore, accoglienza, compagnia…e non è poco!

Ce l’ho fatta anche questa volta e ne sono molto orgogliosa: sempre più convinta che la solidarietà verso chi ha bisogno d’aiuto sia la migliore fonte di energia e la vera motivazione profonda che possiamo chiedere alla misteriosa ed incomprensibile vita che ci è stata concessa.

Roma 10 aprile 2009

Serena Cugini

Psicologi per i popoli – Lazio