Intervento all’ospedale S. Camillo per i feriti libici 11 agosto 2011

Dopo una serie di rimandi temporali e ridefinizioni – puntualmente comunicati da Danila -, alle ore  3 del 30 di aprile 2011 arrivo al Pronto soccorso del S. Camillo, dove stanno arrivando le autoambulanze con un gruppo di feriti libici dall’aeroporto militare di Pratica di Mare. Vengo poi indirizzato al reparto di accoglienza, il Maroncelli.

Situazione difficile da configurare, tutto in divenire, in costruzione: Danila mi presenta 3 mediatori, di cui in realtà una è la coordinatrice che non parla l’arabo, che servono una utenza di più di 20 persone, da far interloquire con un numero imprecisato di medici e infermieri, assunti per l’occasione e perciò non rodati come gruppo di lavoro. La priorità è evidentemente la comunicazione di base necessaria per stabilire le azioni terapeutiche, inclusi gli approfondimenti diagnostici e le priorità di ogni genere dopo un viaggio su un aereo militare in condizioni fisiche compromesse.

Che può fare uno psicologo lì in mezzo? Cosa ho fatto, nel concreto, io? Cercavo di guardare le persone in faccia, di incrociarne gli sguardi tentando un aggancio visivo che in quei pochi istanti comunicasse la considerazione dolorosa della  loro situazione. Se mi sembrava opportuno, adeguato, toccavo lievemente una spalla, un braccio, negli intervalli “vuoti”, anche brevissimi, rispetto agli interventi dei medici. Il mio intento era di creare qualche spazio di rilassamento, anche doloroso, dove frammenti di emozioni potessero affacciarsi prima di essere ricacciate dentro dall’importanza del fare che connotava quei momenti. I mediatori erano fin troppo oberati da richieste di medici, infermieri e pazienti, messaggi connotati da tutte le intonazioni paraverbali che si incrociavano e che li costringeva a prendere, interrompere e riprendere il filo di tante conversazioni contemporanee, con evidenti segni di affaticamento mentale. Cercavo di raccogliere la voce/richiesta ripetuta e disattesa di qualcuno, cercavo di stare un po’ al fianco del medico che, visibilmente esausto, agiva macchinalmente, in automatico, rifugiandosi dietro il suo protocollo di domande, di fronte alla persona allettata che cercava, senza molto successo, un contatto anche visivo con lui/lei.

Come non di rado accade in questo tipo di situazione, a volte si è sfiorato il comico e il surreale, come quando mi sono trovato a suggerire la localizzazione anatomica di una ferita, coperta dall’abbigliamento e indicata con un gesto dal paziente, definizione prontamente accettata e quasi solennemente sottoscritta dal medico senza indugio, l’importante era uscire rapidamente dall’impaccio del compito, al di là di qualsiasi approssimazione.

Credo sia molto importante questo, per uno psicologo: mettere in atto unità comportamentali semplici, attente alle cose semplici, disponendosi a coglierle nella loro, persino, apparente banalità, con l’attivazione di una sensibilità professionale ed umana quanto più possibile intensa, tanto più in un contesto spazio temporale dove, per cento motivi, questa modalità esistenziale appare un lusso, forse per alcuni un lusso superfluo. Puntare, in altre parole, alla qualità dell’azione, peraltro resa possibile e sostenuta dal non avere un ruolo predefinito se non per macro linee di principio, dare sostegno a vittime di guerra. Io non ero lì un infermiere, e anche se ad onta della mancanza di un camice bianco venivo facilmente confuso con uno di loro, procurare un bicchiere d’acqua, farsi portavoce di una richiesta “secondaria”, dare comunque attenzione e tempo ad una comunicazione in una lingua sconosciuta, muovendosi liberamente nell’ambiente, quasi “galleggiando” sulla situazione, cercando di ritornare con deliberata costanza ad uno sguardo panoramico per cogliere, attimo per attimo, l’emergente soprattutto nei suoi segnali più deboli, credo siano le capacità migliori da sviluppare in questa come in tante altre situazioni affini.

Roma  11 agosto 2011

Gianni Vaudo

Psicologi per i Popoli – Lazio