Empoli, 25 gennaio 2017 – «UN’EMERGENZA deve avere un inizio e una fine, se non li si percepisce è un problema. Per tutti. Soccorritori e soccorsi». A cinque mesi dalla prima scossa,l’empolese Lara Pelagotti è pronta a indossare di nuovo la divisa degli ‘Psicologi per i popoli’ e a partire direzione centro Italia. C’è già stata nei mesi scorsi, ad agosto quando il terremoto colpì duro ad Amatrice, a ottobre quando il sisma sbriciolò Norcia. E’ una veterana dell’emergenza insieme agli altri colleghi psicologi pronti a lasciare i propri studi e a lavorare on the road.

Quello del centro Italia sembra un calvario senza fine…  

«Non si può ignorare la ripetitività degli eventi sismici. Credo sia importante rendersi conto che forse, in quell’area, con il terremoto è necessario imparare a conviverci. In questo senso, dobbiamo pensare strategie di intervento efficace». Un bel cambio di prospettiva… «Un punto di vista necessario. E’ difficile accettare di non riuscire a vedere la fine di una situazione così grave e destabilizzante. In questi casi è complicato pensare anche a ricostruire».

Soccorritori e vittime sono sulla stessa barca? 

«In buona sostanza sì, anche se chi presta soccorso è protetto in un certo senso dal lavoro che svolge. E’ il caso nostro, come dei vigili del fuoco, del personale del 118 o dei volontari. Insomma, di tutti coloro che sono impegnati sul posto».

Quindi, vi occuperete anche di sostenere pure i protagonisti di salvataggi e assistenza? 

«Il nostro compito è pure quello. Ma se i volontari, incrociandoti, si aprono, è più raro lo faccia chi fa parte di un corpo strutturato».

Quali sono i sintomi da stress maggiori?

«C’è chi non dorme o chi non riesce a togliersi immagini dalla testa. E poi c’è da tenere a bada la sindrome del salvatore, del voler fare no stop. Pericolosissima: in situazioni di grande impegno l’autoproduzione è fondamentale. Bisogna rispettare le regole lavoro-riposo, più che mai».

E poi c’è la lotta contro il tempo, come accaduto all’hotel di Rigopiano, spazzato via dalla slavina, trappola per famiglie intere.

«Si tratta di un fattore assolutamente usurante. Il senso di responsabilità di chi è operativo è altissimo. ‘Ho fatto abbastanza? Potevo scavare più velocemente?’: sono alcune domande che possono scattare nella mente di chi si trova davanti una vittima. Il tutto sotto i riflettori».

Le luci puntate fanno male?

«Anche se sei abituato, sicuramente sono un aggravamento del fardello. Detto questo, dal punto di vista di amici e familiari dei dispersi, l’interesse è assolutamente comprensibile. E’ un po’ come accadde nel caso di Alfredino Rampi, il piccolo caduto in un pozzo artesiano ed estratto senza vita nel giugno 1981 a Vermicino: l’Italia intesa seguì per ore l’evoluzione, a caccia di un lieto fine».

Ogni vita salvata è emozione, anche quella dei cuccioli di pastore abruzzese dati per dispersi. Che significa il ritrovamento dei cagnolini?

«Significa ‘ce la possiamo fare’. Significa una famiglia sopravvissuta: prima di loro erano stati ritrovati i genitori Lupo e Nuvola. Può sembrare bizzarro, ma è un modo per dare vigore alla speranza. Un sentimento fondamentale. L’opposto del ‘è tutto finito’, inaccettabile a livello psichico».